A. e B., del Senegal e del Gambia, rispondono alle domande degli alunni di un liceo di Roma.
Quello che accade quando, chi ha sperimentato sulla propria pelle e nella propria anima i drammi e gli orrori della migrazione, racconta e si racconta a coetanei e studenti delle scuole italiane è una magia: un catarsi per coloro che svelano il trauma e una empatia profonda di chi ascolta.
I volontari sono comparse, utili a rompere il ghiaccio: tutta la tensione, conoscitiva, emotiva e dialettica, si gioca tra i testimoni del “viaggio” e gli studenti.
Aver potuto ricominciare la collaborazione con le scuole è stato il momento più importante nel processo di ritorno alla “normalità” post emergenza sanitaria.
Sono quelle occasioni in cui l’integrazione – che è un processo bilaterale – si compie davvero e si può assistere – da spettatori privilegiati, quali siamo – a una sorta di epifania: persone che si ascoltano, che imparano le une dalle altre, che si arricchiscono attraverso lo scambio.
E piano piano si avvicinano alunni di altre classi. Non fanno ricreazione: si fermano ad ascoltare, quasi ipnotizzati.
Perché si lascia la propria terra. Cosa si lascia alle spalle. La difficoltà della scelta. Il timore dell’ignoto. Gli anni in viaggio. Le umiliazioni e la violenza della tratta e del traffico di esseri umani. L’abisso del mare. La monetina lanciata in aria: testa o croce? Il razzismo sistemico. La paura suscitata. La diversità che è colpa.
Il Professore ci rivede dopo più di un anno dal primo incontro. Ci dice: “hanno insistito i ragazzi per incontrarvi ancora. Io posso dirvi che è stato impressionante come, dopo quel giorno, gli studenti abbiano cambiato il linguaggio rispetto alla migrazione”.
Il linguaggio.
Questo è fare politica.
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