Il barcone con cui è partito Aboubakar ospitava a bordo più di cento persone. È salpato di notte, inoltrandosi in un mare nero e infinito, con le onde sempre più alte e le luci della costa sempre più lontane e fioche.
Ricordo i pianti acuti dei bambini, ma ricordo sopratutto il pianto strozzato degli adulti, di tutte quelle donne e tutti quegli uomini che vedevano il mare per la prima volta e ne avvertivano l’abisso, la potenza distruttrice.
Aboubakar, invece, conosce e ama il mare: nel suo piccolo villaggio senegalese, affacciato sull’Atlantico, si guadagnava da vivere come pescatore. Anche suo padre era un pescatore e così il padre di suo padre.
È per questo che quando gli scafisti iniziano a puntare le armi alla testa dei passeggeri, intimandoli di prendere il comando del timone, lui si fa avanti.
Prima di abbandonare la barca, ancora in acque internazionali, gli scafisti mettono una bussola nelle mani di un altro migrante, un giovane ragazzo camerunense; poi saltano su un piccolo motoscafo e sfrecciano in direzione sud.
Aboubakar tiene fissi gli occhi davanti a sé, non ha paura, cerca di estraniarsi dalle grida di terrore degli altri migranti a bordo, che si fanno sempre più disperate quando le onde salgono e sembra di imbarcare acqua: Aboubakar vuole solo arrivare il prima possibile, vuole solo arrivare, vivo.
La barca arriva a Siracusa con la luce del sole. La polizia è lì ad attenderli sul molo. Aboubakar scende per ultimo dall’imbarcazione per aiutare tutto l’equipaggio a raggiungere terra. Le persone vengono fatte sfilare in fila indiana davanti a uomini in divisa. Alcune, interrogate, lo indicano da lontano. Quando arriva il suo turno, Aboubakar, viene trattenuto e ammanettato.
Per una intera settimana sono stato in isolamento senza sapere cosa stesse accadendo, di cosa fossi accusato, senza che nessuno mi ponesse una domanda, senza avere la possibilità di chiedere e parlare.
Ad Aboubakar sono stati comunicati i capi d’accusa da un avvocato d’ufficio – traffico di esseri umani e associazione a delinquere internazionale – dopo una prima seduta in Tribunale, svolta in una lingua sconosciuta, tra persone mai viste.
Ho scritto una lettera. Una lettera lunghissima. Ho raccontato ogni particolare, ogni dettaglio di quella giornata. Ho spiegato come io fossi un semplice migrante, come non avessi scelta se non quella di obbedire agli ordini, come ci fosse in gioco la mia sopravvivenza e quella di altri cento esseri umani
Ma non è servito. Dopo un anno e mezzo di detenzione preventiva, Aboubakar è stato ritenuto colpevole e condannato a 3 anni di carcere.
Giudicato complice dei trafficanti libici per aver salvato la vita a se stesso e ad altre 100 persone da quello Stato che con i trafficanti libici fa affari e stringe accordi criminali per garantirsi respingimenti su procura.
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Secondo fonti giudiziarie, dal 2013 sono stati migliaia i migranti arrestati, sulla base di indagini sommarie: dichiarazioni di testimoni ai quali viene semplicemente chiesto “chi ha guidato l’imbarcazione?”
Ancora oggi, vittime del traffico di esseri umani pagano con lunghe condanne l’aver eseguito gli ordini dei libici durante la traversata o la prigionia.
Nonostante la ratio declamata – di arrestare elementi di basso livello, quali gli scafisti, per arrivare ai vertici – si sia rivelata da anni fallimentare, l’italia continua a riempire le carceri di persone innocenti e a collaborare e finanziare quei vertici che dovrebbe combattere.
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Verba Migrant, la Rubrica settimanale di testimonianze di Baobab Experience
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