Youssef è morto assiderato mentre si attendeva inutilmente un mezzo della Guardia Costiera che potesse trasferirlo in ospedale. Aveva sei mesi.
Se mai fosse possibile chiudere gli occhi e tornare indietro nel tempo, se fosse possibile non tardare i soccorsi e salvare anche “solo” quella piccola vita, Youssef e la sua mamma sarebbero probabilmente transitati per Roma e qui avrebbero trovato la strada, nessuna indicazione, nessun riferimento.
A meno che, casualmente, non si fossero imbattuti, per fortuna o passaparola, in una delle associazioni di volontariato attive sul territorio. Perché quando il caso vuole che non si venga inghiottiti dalle acque del Mediterraneo, la lotta per la sopravvivenza non finisce dove inizia l’Europa, ma prosegue in terre ostili, dove le Istituzioni, bene che vada, si girano dall’altra parte e male che vada si prodigano in respingimenti e prassi illegittime.
Solo ieri notte sono arrivati 16 ragazzi e 4 ragazze presso il presidio di Baobab Experience: l’Associazione offre un piatto caldo, un sacco a pelo, un paio di scarpe nuove e un biglietto per proseguire il viaggio.
Nessun altro li vede, a nessuno conviene accorgersene.Lo slancio emotivo – reso possibile dalla scelta, quasi come ultima spiaggia, di Open Arms di rendere pubblico il video straziante di una madre che, nel caos di un naufragio, non trova più suo figlio – somiglia molto a un ultimo anelito di empatia e identificazione, di umanità. Flebile, troppo debole per trasformarsi in un grido di giustizia e nella pretesa di un cambiamento radicale delle politiche europee e italiane a favore di operazioni congiunte di soccorso in mare e di sistemi integrati di accoglienza e inclusione, concrete e tangibili.
“I lose my baby”. E noi? Noi abbiamo perso proprio tutto, anche gli occhi per guardare.
Foto di una nostra attivista scattata questa mattina ai binari della Stazione Tiburtina