“Mi dai una sigaretta?”
“Ciao R., aspetta un attimo.”
“No, la voglio ora”
“Ora sono occupata, non vedi che io e i tuoi fratelli stiamo facendo un’intervista?”
R. fissa la volontaria con le sue smorfie irriverenti e lo sguardo di sfida. Contemporaneamente, infila una mano nella tasca dei jeans di lei, tirando via il tabacco, con tutta calma.
“Ridammelo!”
“No!”
“Si!”
“Va bene. Ma solo se dopo mi dai 4 sigarette”
R. non era un angelo. Attaccabrighe e piantagrane. Fumava troppo, beveva troppo. L’alcol era la causa ma anche la conseguenza. Con R. abbiamo discusso tante volte, tutte le volte in cui pretendeva furbescamente di saltare la fila della cena o che strappava la coperta dalle mani di qualcuno.
Lo abbiamo conosciuto più di 3 anni fa. Per due anni, con impegno e dedizione, è riuscito a vivere una vita normale. Anche se a fatica, un’esistenza dignitosa e un futuro sereno sono sembrati una chance possibile. Intelligente, acuto, con tante capacità e spirito di iniziativa: R. è stato un cuoco, un barbiere, un operaio in un cantiere navale. Finché ha perso tutto, come solitamente si perde tutto, in un sistema che ignora e volta le spalle: piano piano, tutto assieme.
La strada non è una casa per nessuno, è troppo dura e indegna per chiunque; era troppo dura e indecorosa anche per lui. I primi tempi ha cercato spasmodicamente lavoro. Inutilmente. È caduto sempre più in basso, come solitamente si cade in basso: piano piano e tutto assieme.
R. è morto su un giaciglio di fortuna, a pochi metri dal capolinea di un autobus e all’ingresso della seconda stazione ferroviaria più importante di Roma. Due mesi fa R. era stato ricoverato per uno pneumotorace. Al termine dell’ospedalizzazione è stato dimesso in strada. Fragile, debole, dimagrito.Non è servito a nulla segnalare il caso alla Sala operativa sociale o portarlo all’Help Center: “ci spiace ma non ci sono posti”. L’assurdità di un paziente senza fissa dimora, debilitato e affaticato dopo un intervento e con dipendenza da alcol, rigettato (nella duplice valenza del termine) sul marciapiede, con l’invito beffardo di “restare a riposo”.
La sua morte fa troppo male e ci rende colpevoli, noi volontari, per primi: avremmo potuto e dovuto fare di più; avremmo dovuto puntare più forte i piedi, alzare più in alto la voce. Noi che abbiamo ancora fiato.
Lo abbiamo ucciso tutti: una società del benessere effimera dove non gli è stato concesso di entrare. È vissuto ed è scomparso da reietto, emarginato; scarto e allo stesso tempo testimone del fallimento del nostro sistema di tutele, prova autentica della subalternità di una nuova classe di esclusi da ogni diritto, a partire da quello alla vita.
R. è morto lo stesso giorno in cui è venuta a mancare Rossana Rossanda e noi per un attimo abbiamo pensato a Gaber, a quando cantava che “qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano gli altri”.