Vi raccontiamo una storia. Una storia di vita quotidiana, che per noi è una storia tra tante: una tra 85 mila, per la precisione.
A.e i suoi compagni di viaggio sono arrivati una settimana fa nella capitale. Sono partiti dal Darfur sei mesi fa. Ai piedi hanno infradito consumate dai chilometri, ma sono le uniche calzature che possano indossare: le dita e le caviglie sono gonfie e tumefatte.
La destinazione ultima è la Francia. Per alcuni Bruxelles. L’Italia è solo il primo porto sicuro, una penisola da attraversare per arrivare a una nuova vita.
Le biglietterie della Stazione Tiburtina ci conoscono bene. Siamo lì, tutte le mattine, a controllare orari e prezzi dei treni e dei pullman a lunga percorrenza, verso Ventimiglia, il Brennero, le campagne del Sud. Si sale e si va, verso una nuova frontiera, l’ultima (si spera) senza nuove violenze (si spera).
Il treno parte da Ostiense alle 10.47. I titoli di viaggio sono in tasca, già obliterati. Sarebbe bello se almeno questa volta fosse facile. E perché non dovrebbe? Per una volta, tutti attorno, ci sono volontari e attivisti e non trafficanti di esseri umani. Per una volta il mezzo di trasporto è legale, il pagamento del viaggio è legale. Difficile credere o realizzare che possa essere un persona innocente l’emento dell’illegalità.
Gli agenti della Polfer entrano sul treno a pochi minuti dalla partenza: i titoli di viaggio ci sono, ma mancano i documenti. Come potrebbero esserci? Perché iniziare un procedimento di riconoscimento di un titolo di soggiorno in un paese dove non si vuole soggiornare? Perché meravigliarsi della irregolarità quando non c’è modo di giungere in Europa con sicurezza e legalità? Perché obbligare esseri umani ad ancorare la propria esistenza a una terra che non li vuole e dove loro non desiderano vivere?
La Polfer lo sa. Noi lo sappiamo. Ma lo show deve continuare. È di giorni fa la circolare che chiede alla polizia ferroviaria di effettuare controlli serrati sui treni diretti a Ventimiglia. La libertà di movimento deve essere negata con ogni mezzo, per quanto ridicolo esso sia: dunque che sia interrotto il viaggio di 10 ragazzi, sgomberati la mattina stessa dal presidio Baobab. Che nessuno resti! E che nessun parta! Che siano fatti scendere dal treno perché altrove non possono andare! Dieci ore di identificazione, per poi essere ributtati su quella stessa strada che non li vuole.
“Ci dispiace, ragazzi. È tutto incoerente. Un paradosso” – si scusa con una attivista di Baobab il Comandante della Polfer di Ostiense. Parla di gioco delle parti e di incoerenza di sistema. Siamo d’accordo. Ma i ragazzi salgono lo stesso su una camionetta in direzione della Questura di Via Patini.
Ogni giorno e ogni notte, con ogni mezzo più o meno di fortuna, giungono al presidio informale di Baobab Experience giovani uomini, donne e minori. Arrivano da Lampedusa, da sbarchi mediatici o da sbarchi fantasma, dai Balcani, attraverso rotte sempre più disperate. Ma arrivano. Sempre.
Arrivano per non restare.
Sono di passaggio. Sono transitanti. Percorrono l’Italia come ultimo tratto di un viaggio durato mesi o anni e si fermano per qualche giorno nella nostra comunità, giusto il tempo per riprendere fiato, curare le ferite di camminate interminabili, recuperare le forze con un piatto caldo, cambiare abiti consumati dal vento, dalla sabbia, dal sale e alleviare un po’ il cuore in una delle poche tappe in cui ad accoglierli è un abbraccio amico e non il ricatto di un passeur.
Solo dalla fine del lockdown hanno transitato per Baobab più di 200 persone.
In 5 anni, abbiamo visto passare 85 mila volti, mentre la politica italiana giocava a battaglia navale e urlava all’invasione. Un paese così immobile e fuori tempo da aver perso la cognizione stessa del movimento: intanto migliaia di piedi lo attraversano, migliaia lo abbandonano e nessuno è in grado di rendersene conto, tantomeno di domandarsi il perché