Gerusalemme capitale d’ingiustizia

Come se vivessimo in tempi di pace, c’è chi pensa di soffiare sul fuoco acceso di rancori mai risolti, in una terra martoriata, senza preoccuparsi della già fragile condizione del popolo palestinese e di vittime innocenti ormai all’ordine del giorno.

Donald Trump, il presidente che pensa che muri e “muslim ban” possano fermare le persone nella ricerca di migliori condizioni di vita e alla storia di fare il suo corso, ha deciso di scatenare una guerra con una dichiarazione. Spostando l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, gli Stati Uniti la riconoscono sulla carta, capitale di Israele.

Un assist inaspettato, per entrambe le parti, che ha subito infuocato le strade. D’altronde Donald Trump e Benjamin Netanyahu hanno l’hobby comune di alzare muri, reali e culturali, invece che risolvere i problemi. Il muro al confine con il Messico segue idealmente quello fortificato e militarizzato che il governo israeliano ha tirato su per gestire la convivenza con la popolazione della striscia di Gaza. Un elemento che mancava a ciò che, nonostante gli sforzi dei palestinesi per farlo sembrare uno Stato, è peggio di un un carcere a cielo aperto. Senza la minaccia dei bombardamenti israeliani, infatti, un carcere è più sicuro.

Ancora una volta gli Stati Uniti legittimano il rapporto di forza e l’abuso di potere di Israele, cancellando con una dichiarazione la storia, il dialogo internazionale per la pace e la liberazione dei territori occupati. Questo a pochi giorni dal voto israeliano per ratificare l’avanzata coloniale degli insediamenti illegali, criticata da tutti ma poi in fin dei conti tollerata, da sempre.
Si accende così, con una decisione arbitraria presa oltreoceano, la terza intifada.
Ancora una volta una guerra, morti e feriti che indigneranno i media internazionali, però soltanto per poche ore. Noi non vogliamo dimenticare invece.

Proprio venerdì abbiamo ricevuto una menzione speciale nell’ambito della “IV sezione diritti umani del Premio Giorgetti”, che abbiamo voluto dedicare ai palestinesi, rifugiati ormai da oltre 50 anni sulle loro terre o confinati in altri stati che spesso non gli riconoscono i basilari diritti umani. Ci sono intere generazioni che nascono e crescono in campi profughi, in un contesto di gravissime discriminazioni e privazioni, come in Libano. Nella nostra esperienza Baobab ne abbiamo conosciuti di ragazzi, come Mahmud e Fadel, che hanno dovuto lasciare la propria terra, casa e famiglia per sottrarsi a un destino già deciso per loro, difficile e ingiusto.

Siamo di fronte alla più lunga occupazione di sempre che ha già forzato milioni di persone ad essere profughi in medioriente e nel mondo. Dal 1948 a oggi hanno cancellato uno Stato, hanno cercato di cancellare e disperdere la storia e le tradizioni di un popolo, costretto a lottare per la sopravvivenza contro il potere di accordi internazionali che hanno dato autorità a soprusi e appropriazioni indebite quotidiane, come quella degli Stati Uniti che riconoscono Gerusalemme capitale.
Quanto ancora dovremo accettare questa arroganza, questo opportunismo politico, questa follia che genera morte e disperazione infinita?

Sappiamo di tanti che resistono, pacificamente, nei territori occupati e in queste ore sulla spianata delle moschee, luogo simbolo della resistenza dei giovani palestinesi. Privazione di terra e cultura, negazione dei diritti umani, discriminazione. Ciò che sta accadendo in oggi in Palestina è “apartheid”. Come l’apartheid in Sud Africa, una storia ingiusta che può e deve terminare.

*In foto un murales dello street artist Blu, sul muro al confine con la striscia di Gaza, Palestina.

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