Tra le attività che organizziamo al Presidio di Piazzale Maslax, ogni mercoledì, portiamo gli ospiti a fare una visita d’arte guidata. Non sappiamo mai con certezza in quanti parteciperanno: coinvolgere persone che hanno passato la notte in tenda, stremate da un lungo viaggio, dopo aver attraversato deserti, prigioni libiche e mare, è sempre una sfida. All’abbandono, all’emarginazione, ma anche a certi clichè sui rifugiati che forzano verso un approccio asettico la natura dell’accoglienza in Europa.
Nelle prime due uscite, organizzate quest’anno, abbiamo portato i ragazzi a Palazzo Barberini e al MAXXI. Con Ibrahim, nostro ospite rifugiato dal Gambia, andiamo tenda per tenda in cerca di partecipanti -“Who want to come with us to the museum?”. Ci guardano confusi, -“Art”, “Tour!”, diciamo, ma sembrano non capire. Poi qualcuno si convince e comincia a prepararsi, chi non può venire ringrazia. “Next time!”.
Alla fine riusciamo a mettere insieme un piccolo gruppo ancora disorientato ma pieno di curiosità. In questa particolare esperienza, prosegue la nostra collaborazione, iniziata nel 2015 in via Cupa, con il Centro Diurno di via Montesanto, ASL Roma E, che si occupa di persone con fragilità mentali.
A Palazzo Barberini, infatti, ci aspetta Daniela Ferrara, storica dell’arte, e i ragazzi del centro diurno con Gabriella, operatrice e educatrice riabilitativa psichiatrica. E’ subito chiaro che le due realtà hanno molto in comune: l’emarginazione dal tessuto sociale, la conseguente solitudine e il rischio di alienazione. Ciò che Gabriella intende come cura è poi molto simile al viaggio che hanno compiuto i nostri ospiti: – “Gli obiettivi a volte sono poco rilevanti. Ciò che ci interessa è più che altro il percorso: il contatto con persone che hanno fatto un viaggio è molto utile per i nostri ragazzi, perché in qualche modo anche loro hanno attraversato un deserto, che a volte ha compromesso la loro salute mentale”.
I ragazzi del centro diurno hanno deciso di fondare una loro associazione interna e chiamarla “Attiva-Mente”: Tommaso e Pierfrancesco traducono in inglese, Mustafha traduce in arabo e Yassin intervista al termine delle visite. Con Gabriella e Daniela scelgono la destinazione, ci invitano con i migranti, cui consegnano una macchinetta fotografica digitale; le foto scattate saranno poi stampate per una mostra. Tengono traccia di ogni visita registrando le emozioni e le storie con un lavoro accurato, amorevole.
Di fronte nell’edificio, uno dei nostri si ferma e chiede –“Ma cos’è un Museo?”. Troviamo insoddisfacente qualsiasi definizione, la cosa migliore per capirlo è entrarci.
Il palazzo sontuoso, dimora di antiche glorie, li sorprende, cominciano subito a scattare foto, felici.
-“Cosa notate in questo quadro?”, chiede Daniela Ferrara davanti alla prima opera su cui ci soffermiamo, una rappresentazione seicentesca di Giuseppe, Maria e Cristo bambino ritratti durante il viaggio.
– “Sono tutti tristi” risponde un ospite. -“Perché stanno scappando”, aggiunge un altro.
La collezione del Palazzo è composta principalmente di quadri a tema religioso…era pur sempre la residenza di un Papa! I dipinti storici però, mostrano corpi nudi e scene cruente -“Staremo infrangendo tabù o norme religiose?” ci chiediamo con Daniela. E’ possibile ma tutto ciò, fa parte della nostra cultura, volenti o meno, non possiamo censurare la storia: in un percorso d’integrazione è bene mostrare la complessità e le contraddizioni delle nostre radici e delle nostre visioni del mondo. L’arte è un veicolo di comunicazione potente, le perplessità, le curiosità e le reazioni suscitate nei ragazzi sono importanti per capire cosa ci unisce o ci separa e come attraversare alcune barriere. Dopo il giro d’interviste torniamo al Presidio Maslax, comincia a fare freddo, ci salutiamo nel buio pesto del campo. Piccolo conforto è il pensiero che, quella sera dalle tende, invieranno alle famiglie foto di loro tra i fasti del passato e rideranno pensando ai momenti buffi della giornata.
Per la visita al MAXXI temiamo un calo di presenze, è stata una notte di pioggia. Ibrahim invece aspetta già all’entrata del Presidio. Cominciamo di nuovo il giro –“Who want to come with me to the Museum?” Si stanno scaldando con piccoli fuochi improvvisati, qualcuno prepara il tè, ci sembra difficile una visita partecipata ma alla fine si uniscono a noi in sette.
All’arrivo al Museo ci aspetta il gruppo “Attiva-Mente” con grandi sorrisi e strette di mano. La struttura monumentale, ancestrale, dell’architetta iraniana Zaha Adid, ci porta, attraverso il Parco dell’Accoglienza, all’interno, in uno spazio in cui non ci sono piani ma incroci di scale che suggeriscono un’altezza infinita. Uno dei ragazzi lo nota e comincia a descrivere rapito la struttura con tale una ricchezza d’intuizioni che per un momento i nostri ruoli s’invertono. E’ lui a guidarci nella sua visione del “nostro mondo”. L’avessimo anche visto milioni di volte, attraverso i suoi occhi assume una forza e una bellezza nuova. Di fronte a un’installazione che rappresenta con una cupola trasparente la formula di Fibonacci, un altro ragazzo esclama – “Ecco nel mio villaggio, invece, le case le facciamo così!”. Ridiamo insieme. L’entusiasmo è tangibile: hanno voglia di raccontarsi, di stabilire un contatto che vada oltre le necessità e il quotidiano.
La seconda opera verso cui ci guida Daniela è una grande tela con una mappa astrale. Le linee bianche sullo sfondo nero ricordano le mappe che i migranti disegnano con il gesso sulle strutture del campo al presidio. Ibrahim è affascinato: la volta del cielo che ormai da troppi mesi è il tetto di casa sua, in quello spazio in cui le cose assumono il significato che vuoi tu, diventa un’opera d’arte. E forse questa è la definizione più adeguata per rispondere alla domanda “Cos’è un museo?”.
I ragazzi seguono con interesse la guida e i traduttori ma si allontanano spesso, in libera esplorazione, spinti dalla propria curiosità, dai propri interessi. Tra tutte le opere dell’artista sud africano Wa Lehulere, però, una composizione di pannelli su cui è scalfito il linguaggio dei segni anglosassone, è quella che incuriosisce di più il gruppo e che rappresenta bene lo scopo di queste nostre visite d’arte: la ricerca di un linguaggio universale per stabilire un contatto, culturale ma profondamente umano. Ci vuole una foto di gruppo.
Il pomeriggio è passato velocemente, rimaniamo ancora solo il tempo delle interviste – “Cosa pensi di questa esperienza?” Chiede Yassin a un nostro ospite del Sudan – “ E’ stato bello, finalmente mi sento rilassato”.
E’ importante riscontrare che uscire insieme alla scoperta della città e del patrimonio artistico, non solo ci mette in comunicazione ma porta, come l’arte dovrebbe sempre fare, al superamento di uno stato di disagio. Questa esperienza ci fa sperare che possa essere uno degli strumenti di dialogo per uscire dalla marginalità, qualunque sia il male che ti ci ha spinto.
– “La prossima volta ci piacerebbe vedere le opere antiche” osserva un altro.
Suscitare un interesse che crea attesa, la speranza di qualcosa di bello oltre le difficoltà oggettive della vita in strada, per noi, ha un grande valore. Ci congediamo dal gruppo e da Gabriella: dandole appuntamento alla prossima visita, ringraziamo tutti infinite volte – “Io ringrazio voi, la possibilità di incontrare i migranti, mostrando qualcosa che ci appartiene e ci accomuna, come l’arte, contribuisce a rendere l’esperienza un’esperienza umana e a noi aiuta a non sentirci soli”.
Bellissima iniziativa ! La prossima volta mi piacerebbe condividerla… Alla prossima allora !
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