Il 3 ottobre 2013, alle 4.30 del mattino, una nave partita la sera precedente dalla Libia si rovescia a 800 metri dall’Isola dei Conigli, il lembo di terra separato da pochi metri di acqua da Lampedusa. L’imbarcazione ha a bordo tra 520 e 550 persone. Nonostante i tentativi di aggrapparsi a pezzi di relitto e l’intervento di alcuni pescatori attirati dalle grida, 368 persone muoiono affogate. I superstiti saranno 155 e venti circa i dispersi. Oggi le grandi organizzazioni internazionali stimano che da allora siano morte nel Mediterraneo oltre 15.000 persone.
Lungo questa frontiera, in effetti, il potere “di fare vivere e di lasciare morire” teorizzato da Foucault si materializza e si manifesta lì più che altrove. È una frontiera che “tollera la morte”, le cui vittime testimoniano il potere della sovranità e al tempo stesso la violenza politica di uno “spazio di eccezione in mare” dove chi è superstite o un cadavere riaffiorato in superficie diventa una traccia scomoda da dimenticare.
Questa barbarie, frutto di una politica consapevolmente colpevole, deve essere ricordata ogni giorno, perché troppe morti invisibili, troppe navi fantasma, troppi corpi inghiottiti dal mare sono stati lasciati sparire nell’oblio perché chi di queste scelte è stato autore o complice non debba fare i conti con le proprie responsabilità. La tragedia del 2013 ha rotto questo silenzio, riportando sulla scena della politica internazionale la disumanità della fortezza Europa.
L’adozione istituzionale di questa giornata come “giornata della memoria delle vittime della migrazione” non è stato altro che un atto ipocrita e colpevole, se si pensa alle tragedie che dal giorno dopo si sono consumate. Loro, i migranti morti in mare, nonostante gli sforzi e l’impegno profusi da chi si batte per renderli visibili e perché alla loro sorte sia dato almeno il rispetto dovuto, restano nel limbo del “politico”, fuori quadro, a mala pena sfiorati dai sentimenti di scandalo morale: “Il mare è di tutti, ma solo da morti. (…) Riflettete come l’ingiustizia li perseguiti anche da morti. Non più vivi, ma non morti, estranei perfino alla sottile terra di confine tra esistenza e inesistenza”. (Alessandro dal Lago)
Noi abbiamo voluto per questo ribadire, con un momento di ricordo e di denuncia, la necessità di porre fine alla costruzione di muri e respingimenti: l’unica azione è e rimane la costruzione di corridoi umanitari sicuri, per strappare all’oscurità la libertà di movimento e la dignità.
Con lo stesso sentimento di rabbia e di rivalsa, vogliamo scendere in piazza il 21 ottobre, a Roma, insieme, per raccontare dei morti ma anche di chi ce l’ha fatta. Perché non si può scegliere certo dove nascere ma si deve avere il diritto di scegliere dove morire.
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